TOMMASO RUSSO CARDONA, VIRGINIA VOLTERRA, Le Lingue dei Segni. Recensione di Donata Chiricò

TOMMASO RUSSO CARDONA, VIRGINIA VOLTERRA, Le Lingue dei Segni, Roma,
Carocci, 2007, pp. 153, € 15,50.


L’insegnante è una donna, fa estrema attenzione a tenere le mani
dietro la schiena e parla articolando esageratamente
e fermandosi sui movimenti della bocca molto “correttamente”.
Gli allievi leggono sulle labbra.
È a questo punto che capisco l’estensione del disastro (…)
Questa donna che non si serve né delle mani né del suo corpo per insegnare,
che significa attraverso il suo comportamento il divieto di utilizzare una lingua
diversa dalla parola, mi sembrava una provocazione. (…)
Ma gli altri guardano ed ascoltano attentamente ed io non oso interrompere.
Mi sforzo di comprendere ciò che viene detto. Niente.
Lo vede bene; io non so nemmeno di che lezione si tratta.
E. LABORIT, Il grido del gabbiano


Nel Trattato sulla Pittura Leonardo da Vinci raccomanda di imparare dai
muti, ovvero dai sordi, il buon uso dei gesti e dei movimenti del corpo: “Non
rinfacciatemi che vi propongo un insegnante che non parla, perché egli vi insegnerà
meglio con i fatti, che tutti gli altri maestri attraverso le parole. Il buon
pittore ha da dipingere due cose principali: l’uomo e la mente sua. Il primo è
facile, il secondo è difficile, perché si ha a figurare con gesti e movimenti delle
membra, e questo ha da essere imparato da chi meglio li fa che alcuna altra
sorta d’uomini”. Siamo alla fine del ’400 e l’affermazione di Leonardo è tanto
lungimirante quanto estranea alla mentalità dell’epoca. Nella storia della nostra
cultura la questione filosofica di che tipo di mente e di indole potesse avere
un individuo privo della parola assunse presto i connotati di un vero e proprio
accanimento. È difficile spiegare altrimenti quel precetto contenuto nel
Levitico (19,14) il quale raccomanda di non “disprezzare” i sordi e include questi
ultimi tra coloro i quali devono essere protetti dalle ingiustizie e dalla prepotenza
del potere.
Bisogna dire che in epoca classica il punto di vista sui sordi non ha i toni
cupi a cui successivamente ci hanno abituati filosofi, medici e giuristi. Platone,
per esempio, individua nel canale visivo-gestuale una delle possibilità attraverso
cui può essere declinata la prassi linguistica (Cratilo, 422e1-423b10) mentre
Aristostele affronta il problema da un punto di vista biologico per affermare
sostanzialmente che la voce è condizione necessaria ma non sufficiente per
avere un linguaggio il quale è “voce linguisticizzata”, vale a dire voce “articolata”
per mezzo dell’udito (Historia Animalium, IV, 9, 536a). Altrimenti detto,
per Aristotele era chiaro quello che chiaro non sembrò essere per intere generazioni
di intellettuali che gli sono succeduti e, cioè, che i muti non hanno linguaggio
non perché manchino ‘naturalmente’ di intelligenza ma semplicemente
perché sono privi di udito.
Allo stesso tempo, è fondamentale evidenziare che, malgrado il fatto che
Platone avesse prospettato la possibilità dell’esistenza di una lingua diversa da
quella verbale e che Aristotele avesse affrontato la questione della sordità in
termini neutri, un umano fatto come tutti gli umani, ma privo del linguaggio,
culturalmente ha creato non pochi problemi. Il sordo è una progenie scomoda,
difficile da collocare. È un bipede, è partorito e concepito da umani e cresce
tra umani. Eppure non parla, non trova il modo di esibire la sua umanità. La
sua voce non è disciplinata e non è disciplinabile. È ‘mostruosa’, è grido,
stridore.
Il sordo è un ‘dentro’ che si colloca prepotentemente fuori, è un membro
della società che ontologicamente sfugge alla macchina disciplinare della lingua
socialmente condivisa: non ascolta. Non può farlo. La porta principale, l’udito,
è chiusa. Non vi si può accedere in nessun modo. Nessuna voce può arrivare,
nemmeno quella di Dio.
Come non indovinare i motivi profondi e quasi ancestrali che hanno spinto
intere società a bandire i sordi dalla vita sociale? Come non immaginare quanta
diffidenza devono aver suscitato persone totalmente noncuranti del suono di
una campana (che è allo stesso tempo comunità e chiesa), piuttosto che di una
richiesta di aiuto, di un pericolo che arriva alle spalle o altre espressioni del
vivere sociale? Come dimenticare che la parola, in quanto fatta di voce e non
in quanto fatta di qualche altra materia, è per la nostra civiltà la sola degna di
‘incarnare’ il linguaggio? Come non rendersi conto che lo statuto sociale svalutato
del sordo ha a che fare con lo statuto della corporeità nel linguaggio e
nella conoscenza?
La storia dei sordi non è una bella storia. Non lo è per questi ultimi. Non
lo è per una cultura che si è dimostrata, e sovente si mostra ancora, intollerante
e accanita nei confronti di queste anime ‘mute’. Recentemente, tuttavia,
essi stanno cercando di scrivere una pagina diversa e si apprestano a fondare
una città. Ce lo racconta Tommaso Russo Cardona, amico compianto e coautore
(insieme a Virginia Volterra) del libro che qui presentiamo. Si tratta di
una città progettata per “tutti coloro che usano la lingua dei segni”, nella
fattispecie la Lingua Americana dei Segni (ASL). Non è un città di sordi; è una
città di segnanti, una città in cui “i sordi convivranno con gli udenti, agevolati
da un ambiente concepito apposta per loro” (p. 15). In questa città, che si
chiamerà Laurent (dal nome di Laurent Clerc, il brillante insegnante per sordi
trasferitosi dalla Francia in America per tenere a battesimo la prima scuola per
sordi e, quindi, l’insegnamento della lingua dei segni), “in tutti i negozi
dovranno esserci commessi che conoscono il sign language, i citofoni e i telefoni
saranno sostituiti da videocitofoni e videotelefoni e i servizi sociali, dagli
ospedali alle poste, saranno concepiti in maniera tale da rendere possibile a chi
usa questa lingua visiva e gestuale di accedervi con facilità. Anche i bambini
riceveranno un’educazione scolastica bilingue, in inglese e in ASL” (p. 15).
Siamo nel nord degli Stati Uniti, nel South Dakota, a qualche chilometro
dalla città di Salem e l’ideatore di questo progetto, di questa vera e propria città
che non c’è, è un sordo prelinguistico. Si chiama Marvin T. Miller e se riuscirà
a realizzare quanto sin qui prospettato, gli Stati Uniti avranno, dopo l’unica
Università al mondo per sordi (Gallaudet University), anche la prima città al
mondo che contempli una forma di vita bilingue per i suoi abitanti e visitatori,
una città in cui sordi e udenti possono ritrovarsi senza sentirsi due varianti
della stesso genere. Nella storia degli uomini le città sono state fondate per
diversi motivi: per ricordare una persona amata, le gesta di un imperatore, la
provenienza dei suoi primi abitanti, una battaglia. Non sono mai state fondate
per sancire un bisogno così fortemente culturale ed esistenziale quale la possibilità
di imparare a parlare una lingua e praticarla. In effetti, la costruzione di
questa città (a più di cento anni dal Congresso di Milano) rappresenta un risarcimento,
la materializzazione di un’utopia e una grande scommessa.
Basta seguire il testo per scoprire perché potrebbe incarnare queste tre cose
messe insieme. Il primo capitolo è dedicato ad una breve ricostruzione storica
dello statuto giuridico e della considerazione socio-culturale in cui nel
passato venivano tenuti i sordi. È qui che ci viene ricordato che il Corpus Iuris
Civilis promosso nel 531 da Giustiniano (che nel 529 aveva chiuso la scuola
filosofica di Atene) priva i sordi di alcuni diritti fondamentali: quelli di “fare
testamento, di stipulare contratti, di rendere testimonianza” (p. 18). Un contributo
in questa direzione è ascrivibile al più importante tra i pensatori della
patristica, Agostino, il quale nel Contra Iulianum “sottolinea che la sordità è un
male perché può comportare una mancanza di fede” (p. 19) e questo malgrado
il fatto che nel De Quantitate Animae avesse scritto di aver visto “un sordomuto
in grado di esprimersi compiutamente attraverso la lingua dei segni” (p. 19).
È noto che esiste qualche sporadica presa di posizione a favore della
possibilità di “apprendere il Vangelo attraverso i segni” (San Gerolamo). Tuttavia,
Tommaso Russo Cardona ricorda giustamente che “la consapevolezza
dell’esistenza di una comunicazione gestuale in segni” resta molto poco diffusa.
Al contrario, “sembra che nel Medioevo l’atteggiamento prevalente sia quello
di considerare i sordi alla stregua di molte altre figure ai limiti del mondo
sociale, come gli ammalati cronici, i mendicanti, ma anche ai limiti di quello
della fede, come i saltimbanchi e i guitti che praticano la pantomima”. Questo
vuol dire che possiamo senz’altro affermare che tra il Corpus Iuris Civilis e il
Rinascimento, la condizione dei sordi e la considerazione della lingua gestuale
resta sostanzialmente invariata. È solo quando lo “stretto contatto” (p. 20) tra
medicina, filosofa neoplatonica e alchimia fanno in modo che si torni “a riflettere
sul ruolo dei sensi per la conoscenza” che finalmente si suggerisce che
la vista potrebbe “sopperire alle carenze dell’udito, anche nei sordi dalla nascita”
(p. 20). Bisogna dire, tuttavia, che in questa primissima fase di riflessione
sulla sordità non si pensava ancora alla possibilità che i sordi potessero
avere una loro lingua ‘emancipata’ da quella degli udenti. Si pensava, per lo
più, a fornire a singoli sordi la possibilità di accedere ai rudimenti della scrittura
e della lettura nonché all’uso di alcuni semplici vocaboli. A tal proposito,
c’è da tenere conto che in moltissimi di questi casi gli interventi erano
destinati a figli di famiglie aristocratiche presso le quali la presenza di un sordo
rischiava di interrompere l’asse ereditario dacché all’epoca erano ancora in
vigore norme che escludevano i sordi dal “diritto di ereditare o fare testamento”
(p. 21). È a partire da ciò che si spiega come mai la storia della pedagogia
‘speciale’ per sordi sia caratterizzata da tecniche educative finalizzate ad
indurre produzione di suoni vocali, vale a dire comportamenti linguistici che
potessero essere approvati dagli udenti e dalla cultura logocentrica di cui eravamo
e siamo profondamente intrisi. È così tanto per Juan Pablo Bonet in Spagna
quanto per Conrad Amman, autori rispettivamente delle due più importanti
opere di riferimento del nascente oralismo: Reduccíon de las letras y arte
para enseñar a hablar a los mudos (1620) e Surdus loquens. Sarà così a lungo e a più
riprese. È così ancora oggi, era di impianti cocleari, fragorosomente definiti
‘orecchio bionico’.
Ci fu un momento, tuttavia, in cui ciò che mai i sordi avevano potuto dire
venne semplicemente detto e fatto dal protagonista di quella che può essere
definita la prima grande rivoluzione pedagogica della storia: l’abate Charles-
Michel de l’Épée. Siamo nella Parigi pre-rivoluzionaria, nella Parigi dei grandi
filosofi illuministi, dei filosofi dai libri messi al bando dalla Sorbona, nella
Parigi in cui il pluricensurato (e anche più volte chiuso alla Bastiglia) Denis
Diderot aveva dedicato un testo filosofico alla cecità (Lettera sui ciechi ad uso di
coloro che vedono, 1746) ed uno alla sordità (Lettera sui sordi ad uso di coloro che
sentono e che parlano, 1751). È in questo clima che L’Épée, già inviso alla Chiesa
per la sua simpatia nei confronti del giansenismo, si imbatte in due giovani
gemelle sorde fino a quel momento affidate ad un suo confratello. È questa
l’occasione in seguito alla quale egli comincia ad occuparsi in maniera più
estesa di educazione di sordi. Si installa praticamente nella sua casa di famiglia
insieme ai suoi primissimi allievi e tiene lezioni pubbliche e gratuite. Bisogna
dire che le sue lezioni attiravano non solo i sordi, ma praticamente tutta Europa.
Da l’Épée si reca Giuseppe II, imperatore di Germania, il nunzio del Papa,
numerosi istitutori, filosofi, intellettuali. Per la prima volta nella storia
qualcuno aveva semplicemente ‘ascoltato’ i sordi: “L’Épée aveva cominciato a
sviluppare il suo metodo quando alla fine degli anni cinquanta era divenuto
precettore di due allieve sorde: due sorelle le quali avevano sviluppato da sole
una complessa forma di comunicazione gestuale. De l’Épée era rimasto colpito
dalle possibilità comunicative e dalla rapidità di apprendimento di queste due
piccole allieve e aveva cominciato a pensare che i segni sviluppati naturalmente
dai sordi potessero essere d’ausilio nell’educazione. (…) L’intuizione
di l’Épée è appunto che al bambino sordo debba essere data una via di accesso
naturale ai contenuti della comunicazione che gli permetta innanzitutto di
uscire dall’isolamento e di sviluppare le proprie conoscenze” (pp. 25-26).
Nasce così il segnismo e quella prima scuola per sordi a cui lo stesso Luigi XVI
assegna una sede ed un contributo finanziario (1785) e del cui futuro si occuperà
direttamente l’Assemblea dei rappresentanti della Comune di Parigi dichiarandola
“Istituto Nazionale” (1791) non senza che l’Épée fosse menzionato
tra i cittadini benemeriti della patria e dell’umanità.
I successi politici e culturali di L’Épée e della sua scuola non salvarono i
sordi e la loro lingua da una nuova e più feroce ondata di normalizzazione. Nel
1880, il Congresso internazionale che riunisce le grandi scuole per sordi, bandisce
la lingua dei segni da ogni ordine e grado di istruzione nonché sancisce il
divieto di utilizzarla al di fuori delle scuole. Principali promotori del congresso
tre italiani (Giulio Tarra, Serafino Balestra e Tommaso Pendola) i quali motivarono
la loro battaglia antisegnista con la “difficoltà di catechizzare le persone
sorde” (p. 28) e trovarono nell’ossessione di influenti personaggi quali Alexander
Bell secondo il quale l’utilizzo di una lingua dei segni avrebbe favorito la
nascita di una “razza sorda del genere umano”, il terreno favorevole alla diffusione
del loro punto di vista anche negli Stati Uniti dove, per un momento,
era sembrato che “la svolta oralista” potesse essere “in parte arginata” (p. 29).
È importante a questo punto ricordare quello che mette in evidenza Tommaso
Russo Cardona: “La lettura in chiave ‘razziale’ della contrapposizione tra oralismo
e manualismo non è che la più evidente manifestazione della confusione
profonda a proposito del ruolo della comunità sorda, del suo statuto intermedio
tra condizione biologica e dimensione socioculturale e svela, ancora una
volta, i timori che da sempre questa condizione di ‘diversità’ suscita nei sostenitori
dell’ordine costituito” (p. 29).
La storia dei sordi fin qui brevemente ricostruita spiega alcune delle caratteristiche
interne delle lingue dei segni le quali, malgrado l’accanimento di cui
sono state destinatarie, hanno continuato a vivere ed oggi assommano a 114.
Alcune sono piccoli mondi, vengono adoperate da comunità linguistiche il cui
numero dei segnanti è estremamente ridotto. È questo il caso dell’Adomorobe
Sign Language, una lingua dei segni parlata in un villaggio del Ghana da solo
300 segnati nativi. Diverso è il caso dell’American Sign Language, utilizzato da
circa 500.000 persone (p. 33). Come ogni sopravvissuto, le lingue dei segni
portano in sé il marchio delle difficili condizioni in cui hanno dovuto farsi spazio.
Estremamente difficoltosa resta oggi la possibilità di individuare i loro
rapporti genealogici. Una certezza: “le relazioni tra varietà segnate sono del
tutto autonome rispetto a quelle tra le lingue parlate nei paesi corrispondenti”
(p. 33). Passando dalla diacronia alla sincronia, c’è da rilevare che le lingue dei
segni restano oggi debolmente standardizzate. Una spiegazione di questo fenomeno
risiede nella “mancanza di una forma di scrittura” (p. 33), ma altresì nel
fatto che esse non sono mai diventate un veicolo anche parziale di informazione.
Del resto, Tommaso Russo Cardona ricorda che processi di omogeneizzazione
si sono realizzati laddove, ad esempio, esistono trasmissioni televisive
in lingua dei segni o istituzioni culturali e di formazione in cui essa è utilizzata
per l’insegnamento e, quindi, per gli scambi interpersonali e per il normale
svolgimento della vita (p. 33). È questo ciò che è avvenuto negli Stati Uniti
grazie alla Gallaudet University e ciò spiega perché “il grado di omogeneizzazione
linguistica è diverso per le lingue dei segni, di paese in paese” (p. 33).
Da questo punto di vista un fattore importante di cui tenere conto è la “composizione
interna delle comunità linguistiche sorde” (p. 34), nonché le condizioni
in cui prende il via l’apprendimento di una lingua dei segni. C’è da
tenere in considerazione il fatto che esse sono composte da individui che
hanno competenze linguistiche estremamente differenziate e che per la maggior
parte di loro (più del 90%) la lingua dei segni è un’acquisizione tardiva e
sicuramente successiva ai primissimi anni di vita. Pochissimi sono i sordi figli
di sordi e, quindi, pochissimi sono i sordi che entrano in contatto con la lingua
dei segni come con una qualsiasi lingua madre (p. 34).
Tuttavia, nuove lingue dei segni emergono dovunque ci sia la possibilità
che si formi “una comunità linguistica abbastanza ampia perché la lingua diventi
un veicolo di comunicazione condiviso” (p. 34), ovvero in qualsiasi parte del
mondo “bambini ed adulti sordi si trovino insieme e possano socializzare” (p.
35). Come opportunamente ricostruisce Tommaso Russo Cardona, il “complesso
fenomeno” delle lingue emergenti dei segni dipende da due condizioni
diverse: il grado di coinvolgimento della comunità sorda e la forma in cui la
comunità udente incoraggia lo sviluppo della comunicazione segnata (p. 35).
Egli descrive tre casi considerati paradigmatici: il caso del Nicaraguan Sign Language
(NSL), quello dell’Al Sayyd Bedouin Sign Language (ABSL) e quello delle
Línguas de Sinais Primárias (LSP) dei sordi brasiliani. Estremamente interessante
sono le circostanze in cui è nato l’Al Sayyd Bedouin Sign Language (ABSL) e la
sua “comunità segnante integrata” (p. 37). Ci troviamo di fronte al caso di una
lingua adoperata all’interno di una comunità in cui specifiche condizioni
biologiche e storiche hanno fatto sì che il numero di persone sorde sia superiore
alla media degli altri paesi occidentali (4,28% contro lo 0,01%). Tale
circostanza ha finito per indurre (anche grazie a matrimoni misti) la diffusione
della lingua segnata fra gli udenti i quali, a loro volta, divenendo parte costitutiva
della comunità segnante, hanno contribuito al processo di standardizzazione
e omogeneizzazione linguistica.
Opposta a questa, ma altrettanto significativa, è la congiuntura in cui sono
emerse le Línguas de Sinais Primárias (LSP) le quali dimostrano che nel caso un
numero ridotto di sordi si trovi nelle condizioni di dover comunicare con una
comunità di udenti, quelli sviluppano “strutture grammaticali autonome e
complesse riadattando i materiali comunicativi gestuali che condividono con
gli udenti e modificando le loro forme di comunicazione” (p. 37). Il Nicaraguan
Sign Language (NSL) ha, invece, una storia spiegabile a partire dai ‘vantaggi’
dell’educazione speciale per sordi. Fino a quando, infatti, sono esistite
scuole specificamente dedicate ai sordi, sono esistiti posti in cui i sordi non vivevano
isolati. Questo ha fatto sì che, anche nel periodo in cui tali istituti puntavano
sull’apprendimento della lingua parlata, “i bambini utilizzavano la loro
competenza gestuale per creare delle forme linguistiche” (p. 35). Originariamente
“influenzate dalla gestualità degli udenti e dalle caratteristiche grammaticali
dello spagnolo letto sulle labbra” (pp. 35-36), nel tempo essi hanno
contribuito a fare emergere “una lingua dei segni nicaraguense condivisa da un
numero piuttosto ampio di segnanti” (p. 36) in cui le “le strutture lessicali e
grammaticali create dalla prima generazione di segnanti si sono evolute e stabilizzate
in forme nuove, raggiungendo un equilibrio nell’arco di un paio di generazioni”
(ibid.). Interessante a questo proposito la conclusione a cui giunge
l’autore: “I sordi sembrano, quindi, riuscire a sviluppare un lessico in segni e
anche forme rudimentali e via via più complesse di sintassi sulla base di un
processo di convenzionalizzazione e di adattamento di tutti i materiali comunicativi
a loro disposizione. In particolare, una volta che si sviluppa un lessico
abbastanza ampio, le prime forme grammaticali e sintattiche emergono spontaneamente.
Questo processo nasce dai bisogni comunicativi e si esplica quando
i sordi sono in contatto tra loro o con persone udenti. L’intreccio tra predisposizioni
biologiche alla comunicazione e dimensione sociale si rivela così
fondamentale e, soprattutto, dinamico, ovvero mutevole a seconda del tipo di
interazioni e in relazione a ciò che si comunica” (p. 38).
Questo spiega perché quando si cerca di stabilire sulla base di quali elementi
sia possibile (e per la verità anche necessario) parlare di “appartenenza
di una persona alla comunità dei sordi” (p. 39), fermo restando che “il primo
strumento di identificazione delle persone sorde” è la lingua dei segni (p. 41),
si è contestualmente obbligati ad ancorarsi da una parte al fatto biologico dell’essere
sordi e dall’altra alla “distanza dal mondo udente”. Tommaso Russo
Cardona ha definito questa distanza in termini di “abitudini, usi e costumi che
uniscono i sordi tra loro” nonché di “oggettive difficoltà a usufruire dei servizi
sociali e a integrarsi economicamente” (p. 39). Come che sia, la lingua dei segni,
nata da un ‘artificio’ che all’origine aveva visto un codice gestuale ‘incarnarsi’
in una grammatica per lingua verbale, storicizzandosi si naturalizza e diventa
una lingua vera e propria. E la lingua, come ci ricorda l’autore, ha di
straordinario proprio questo: è tenace, attraversa il tempo e lo spazio sapendo
che per rimanere sempre se stessa deve essere capace di mescolarsi a tutto:
“Una lingua, in particolare, si differenzia da altri sistemi comunicativi non
linguistici, come la pantomima o i segnali stradali, per il suo alto grado di sistematicità
e per la sua apertura al mutamento nel corso del tempo, nello spazio
e in relazione alle esigenze comunicative dei parlanti. Inoltre ogni lingua è
una forma di comunicazione e di azione pervasiva che investe la vita di ciascuno,
in ogni momento e in tutte le attività sociali che ci caratterizzano” (p. 49).
L’attento studioso di teorie linguistiche che è stato Tommaso Russo Cardona
ci ricorda che le lingue dei segni – come tutte le lingue verbali – sono caratterizzate
da sistematicità, variabilità, arbitrarietà, iconicità e doppia articolazione
(pp. 53-65). Prive di scrittura, esse restano scarsamente standardizzate
e omogeneizzate e divengono luogo di proliferazione di “varietà e dialetti segnati”
(pp. 54-55). Interessanti sono le osservazioni relative al ruolo dell’iconicità
la quale “non si contrappone, ma convive con il carattere sistematico
della lingua” (p. 75). A questo proposito è messo opportunamente in rilievo
che nelle strutture discorsive tipiche del segnato, l’iconicità può emergere in
“forme che sono spesso ‘produttive’ e sono legate dinamicamente ai processi
di comprensione” (p. 81). È così che scopriamo che costruzioni segnate dotate
di iconicità discorsiva sono significativamente presenti nel testo poetico
(53,4% di costruzioni segnate), ridotte nelle libere narrazioni (43%) e limitate
nella varietà formale usata in occasione di conferenze (pp. 81-82).
Dato il carattere visivo-gestuale delle lingue dei segni, i rapporti tra iconicità
e arbitrarietà sono “diversi rispetto a quelli presenti nelle lingue vocali”
(p. 92). In particolare, Tommaso Russo Cardona, dopo aver evidenziato che
tale caratteristica dipende dalla “strutturazione interna del sistema linguistico”
e dai suoi utenti (pp. 92-93), mostra un particolare interesse per l’ipotesi secondo
cui la pervasività di tratti iconici nella lingua dei segni sia anche da attribuire
alla sua base neuropsicologica. In effetti, studi recenti sui fondamenti
biologici del linguaggio hanno dimostrato che i segnanti utilizzano l’area di
Broca nello stesso modo in cui viene utilizzata dai parlanti, vale a dire per produrre
quello speciale tipo di movimenti volontari che sono i segni di una lingua.
Allo stesso tempo, Tommaso Russo Cardona attira l’attenzione sul fatto
che nel corso delle loro prestazioni linguistiche i segnanti “sembrano evidenziare
un maggior coinvolgimento dell’emisfero destro e mostrano abilità particolari
per tutti i compiti legati alla percezione visiva” (p. 93). Contestualmente
questi si rifà agli studi sui neuroni specchio i quali – come è noto – si
attivano (nei primati e negli umani) quando viene compiuto o osservato un
comportamento, nella fattispecie un atto motorio, intenzionale. Essi si attivano,
cioè, quando una scimmia afferra o osserva un suo simile afferrare un
oggetto con un certo fine (manipolarlo, spostarlo, mangiarlo, etc.) piuttosto
che quando un umano compie o osserva qualcuno compiere gesti di tipo analogo,
compresa la produzione di segni nella sua versione parlata e segnata.
È interessante constatare che a questo punto viene messo l’accento sul fatto
che i neuroni specchio caratterizzano l’attività di quelle aree cerebrali che
nell’uomo si specializzeranno in prestazioni linguistiche ma la cui attività riguarda
la produzione e, quindi, “la percezione visiva di azioni di manipolazione”
(p. 93). Andando più nello specifico, Tommaso Russo Cardona ribadisce
che essi sono in azione “non solo nella produzione e nella percezione di
azioni manuali dotate di significato, ma anche nel caso di movimenti labiali” (p.
94). Il forte interesse fin qui dimostrato da quest’ultimo per la serie di studi
neuroscienfici che abbiamo evocato, è spiegabile anche attraverso il fatto che
egli teneva molto a contribuire ad una linguistica “incarnata”, ad uno studio del
linguaggio in cui si sia capace di tenere conto del “diverso accesso sensoriale
alla realtà” e della diversità dei “mezzi di espressione”. Teneva altresì molto a
ricordare che proprio lo studio delle umiliate lingue dei segni può concorrere
a rilanciare la suggestiva ipotesi di Leroi-Gourhan secondo la quale esiste un
legame tra “origine del linguaggio e attività manipolative e strumentali” (p. 94)
e, quindi, tra evoluzione e prassi. Da questo punto di vista le lingue dei segni
possono a giusto titolo essere considerate come “un sistema comunicativo inscritto
nel nostro codice genetico, vestigia delle prime forme di comunicazione,
che si realizza come ‘prima’ lingua, oggi, solo nelle persone sorde” (p. 94).
Un testo denso e appassionato come quello che Tommaso Russo Cardona è
riuscito a lasciarci (insieme ad altri due per ora non pubblicati) prima che il
suo viaggio nella vita e nella filosofia del linguaggio fosse interrotto dalla malattia,
non poteva che approdare alla poesia. Del resto, come potrebbe una lingua
‘orale’ come quella dei segni non avere i suoi rapsodi? Come potrebbe una
lingua che probabilmente è stata la lingua originaria del genere umano non essere
anche ritmo, armonia? Più specificamente, Tommaso Russo Cardona analizza
finemente Orologio, una poesia in Lingua Italiana dei Segni composta da
Rosaria Giuranna, poetessa sorda siciliana. Il tema è il tempo quale dimensione
che influenza e limita i rapporti tra le persone. È un tema che ha “molto
a che fare con la cultura sorda” in quanto la “temporalità è vista in relazione
alla possibilità di condividere la dimensione sociale, in una comunità frammentata
dove gli incontri e le possibilità di relazione sono limitati” (p. 105).
Se ripercorriamo quanto pazientemente ricostruito impariamo molte cose. Impariamo
che “l’espressione poetica in lingua dei segni” adopera “procedimenti
linguistici paragonabili a quelli tipici delle lingue vocali, come il metro, la rima,
la versificazione, anche se nella forma specifica di questo tipo di comunicazione
visivo-gestuale” (p. 96) e che “le forme create dalla mani si compongono
armoniosamente come in una danza” (p. 103). Impariamo altresì che nei componimenti
poetici segnati il ruolo giocato nelle lingue vocali dall’intonazione,
dall’iperarticolazione delle parole, dall’accento e dalla quantità vocalica è
svolto dallo spazio, dal rapporto tra le mani e gli articolatori non manuali, dalla
simmetria tra le due mani e dal rapporto interno tra il movimento e gli altri
parametri formazionali. Impariamo, soprattutto, che “esiste una radice comune
a segni e parole” (p. 116) e che attraverso il filtro delle lingue dei segni è
possibile “riflettere sui tratti universali del linguaggio poetico” (p. 96).
Virginia Volterra, che chiude il libro con un interessante capitolo dedicato
all’apprendimento della lingua dei segni, non manca di dedicare una riflessione
specifica proprio al ruolo rivestito del gesto nell’origine e nell’apprendimento
del linguaggio verbale. Ella ricorda che importanti studiosi hanno sostenuto,
anche di recente, che “la prima forma di comunicazione, il protolinguaggio,
era sostanzialmente costituita da componenti manuali accompagnati da espressioni
facciali” ai quali successivamente si sarebbe aggiunta, e non sostituita, la
produzione di suoni e l’articolazione vocale. La sintassi, al canto suo, sarebbe
nata “dai e con i gesti” e successivamente si sarebbe trasferita nella lingua vocale”
(pp. 118-119). Passando dalla filogenesi all’ontogenesi, Virginia Volterra
ricorda che nel momento in cui il “bambino comincia ad utilizzare le prime
parole, a circa un anno di età, già in qualche modo sa comunicare attraverso
comportamenti sia gestuali (…) che vocali” e che “gli elementi gestuali del primo
repertorio comunicativo dei bambini sono molto più comprensibili rispetto
a quelli vocali” (p. 120). Più specificamente, in una fase comunicativa
iniziale i bambini udenti normalmente esposti alla lingua parlata sembrerebbero
prediligere la modalità gestuale ed è solo attorno ai due anni che “la modalità
vocale prevale rispetto a quella gestuale” (p. 125).
Insomma, tanto l’ontogenesi quanto la filogenesi suggeriscono che nulla
impedirebbe ai bambini sordi di imparare da subito e con gli stessi risultati e
ritmi dei loro coetanei udenti una lingua dei segni. Eppure sappiamo che non è
stato e non è questa la metodologia normalmente seguita. Generazioni e generazioni
di sordi prelinguistici sono stati obbligati a forzare i loro limiti biologici
e ‘mimare’ suoni che non erano in grado di ascoltare e che mai avrebbero potuto
dare vita ad un atto di parole. È l’era degli istituti speciali nei quali insegnanti
ed assistenti si mostravano per lo più orgogliosi di “non utilizzare i segni
con i bambini” e si dichiaravano convinti del fatto che “solo parlando” li avrebbero
“indotti (…) ad utilizzare la voce” (p. 127). Essendo queste le condizioni,
a quanto pare peggiorate dalla nascita delle classi speciali in scuole ordinarie e
dall’inaugurazione del cosiddetto regime del sostegno (p. 131), come le lingue
dei segni abbiano fatto a sopravvivere è quasi un mistero. Sta di fatto che negli
ultimi quindici anni la situazione sembra, almeno in parte, modificata: una
legge del 1992 (L. 104) permette di richiedere un assistente alla comunicazione
per chiunque (dal nido alla scuola superiore) conosca e utilizzi la LIS (p.
133). Alcune scuole hanno sperimentato modelli di educazione bilingue italiano-
LIS il cui fine è far sì che bambini sordi ed udenti imparino “insieme in
un ambiente bilingue e biculturale” (p. 136). Molto interessanti sono, infine,
le esperienze di insegnamento dei segni a bambini udenti le quali dimostrano
che questi “imparano con estrema facilità la lingua dei segni come seconda
lingua” (p. 138) e che il suo apprendimento “può contribuire (…) allo sviluppo
di abilità quali l’attenzione e la memoria visiva” (p. 139).

DONATA CHIRICÒ

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